Franco Monari

 

intervista a cura di Serena Trinchero

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1 – Quale è per te il valore del paesaggio in particolare in relazione alla serie “E poi verrà la nebbia”? Potresti descrivere la tua modalità di esplorazione dei luoghi che sono i soggetti delle tue immagini?
Credo che la fotografia sia un ottimo strumento di osservazione del paesaggio e confrontarmi con esso mi porta a confrontarmi con me stesso. Nel caso specifico di E poi verrà la nebbia, il mio approccio non è quello dell’indagine paesaggistica o architettonica, bensì quello di una personale introspezione: esploro i luoghi da solo, senza programmare nulla, né la meta, né gli orari. Quando ne sento l’esigenza mi congedo da casa, metto in moto l’automobile e decido i primi chilometri; poi lascio che sia la strada a scegliere per me. Il territorio in questione è un’area che comprende la bassa modenese a partire da Carpi, e che si estende a nord-est fino ai confini con la provincia ferrarese, a nord e a nord-ovest fino agli argini mantovani e reggiani del fiume Po. Diciamo una trentina di chilometri in ogni direzione. Quest’area racchiude i luoghi dove sono nato e cresciuto, dove vivo e dove lavoro. Ho iniziato a esplorare questi territori ormai una decina di anni fa e questo mi ha portato a conoscere degli angoli nascosti, alcuni più interessanti di altri, e a creare una mia personale mappa di luoghi, di intimi microcosmi, dove tornare e ritornare più volte in momenti differenti. Penso, anzi, sono sicuro, che questo abbia creato un legame molto forte tra me ed il territorio.

2 – Il soggetto delle tue immagini è un luogo, l’Emilia, che ha una “storia fotografica” molto nutrita e complessa. Vaccari,  Ghirri, Barbieri, sono esempi che costituiscono uno stimolo per la tua ricerca?
Inutile dire che quando ho iniziato ad osservare e a fotografare il paesaggio mi sono avvicinato molto agli autori che hai citato, soprattutto Luigi Ghirri. Li ho studiati con attenzione come si studia un maestro, a prescindere dal fatto che abbiano scattato o meno in luoghi a me conosciuti. Oggi, però, cerco di allontanarmi dalle loro fotografie per trovare un mio modo di guardare. Il paesaggio è più o meno sempre quello, certo, ma tra me e loro c’è una generazione e  naturalmente sono cambiate alcune cose, come l’avvento del digitale e di Internet. Lo stimolo è quello di riuscire a non imitarli, piuttosto provare a superarli e a proporre una visione diversa e contestualizzata all’epoca attuale.

3 – In una precedente intervista hai sottolineato come tu sia rimasto favorevolmente colpito dal fatto che questi luoghi siano rimasti sostanzialmente uguali a sé stessi. Leggi questa immutabilità come una propensione alla salvaguardia del paesaggio?
Questi sono i luoghi sono campagne, le golene, gli argini del Secchia, del Panaro e del Po; sono principalmente destinati all’agricoltura, non ci sono molte fabbriche, ed i piccoli paesi che si incontrano sono ormai abitati  solo da anziani. Vien da sé che sono luoghi dove il tempo trascorre in maniera differente e che sono rimasti sostanzialmente immutati per molti anni. Grossi cambiamenti si sono iniziati a vedere adesso in seguito alle calamità naturali che ha subito la bassa modenese: i terremoti del 2012 e le recenti alluvioni hanno modificato molto il paesaggio, così come l’attuale azione di ricostruzione che ha portato una ventata di nuovi edifici in un contesto che era rimasto per molti anni abbastanza immobile.

4 – Sia le serie fotografiche dedicate ai luoghi industriali abbandonati, che il progetto “E poi verrà la nebbia” hanno a che fare con il tempo. Eppure mi pare che in questa nuova opera si possa parlare di un tempo nuovo, narrativo e ciclico, piuttosto che di quello della storia.
Si, è vero. Il tempo è per me un argomento molto importante. Sono una persona nostalgica, penso spesso al mio passato, alle persone, ai ricordi e ai luoghi che mi sono rimasti impressi. L’esplorazione di fabbriche e ospedali abbandonati, che ho fatto per molti anni, non è solo un progetto fotografico: è prima di tutto voglia di silenzio e isolamento, oltre alla curiosità di indagare un passato storico e fissarne la sua memoria. Mentre esplori questi luoghi il tempo si dilata: vivi quasi un’altra vita, hai la parvenza di aver viaggiato indietro nel tempo. In E poi verrà la nebbia, invece, il tempo è sempre dilatato; non raggiungo mai una meta, è un viaggio senza una destinazione definita.

5 – Nel parlare di “E poi verrà la nebbia” metti in evidenza l’unicità di ogni scatto che hai stampato su tela, e successivamente ritoccato a mano con colori a smalto e spray. Questa attenzione diviene un modo per coniugare fotografia e pratica pittorica dalla quale sei partito?
In effetti sono un pittore mancato… Il mio percorso artistico è iniziato con la pittura: ispirandomi a fotografie di reportage, dipingevo principalmente città teatro di conflitti bellici come Baghdad, Mogadiscio o Kabul.
Con il tempo mi sono spostato verso la fotografia e l’esplorazione urbana, ma ho sempre mantenuto uno stile pittorico. Non ho mai fatto la classica fotografia; ho sempre sentito l’esigenza di manipolare le immagini e di post-produrle con l’uso di software e filtri. In E poi verrà la nebbia mi sono spinto ancora più avanti, stampando le immagini su tela per poi ritoccarle con l’uso delle bombolette spray. Questo mi permette di dare ad ogni fotografia una diversa sfumatura, unica ed irripetibile. Proprio come accade durante le mie esplorazioni: nonostante io riveda gli stessi posti più volte, le emozioni che ricevo sono sempre diverse.

6 – Stai già lavorando ad un nuovo progetto? Vuoi parlarcene?
Ho iniziato da pochissimo quello che spero sia per me un nuovo ciclo di lavori e non semplici sperimentazioni fine a se stesse. Si tratta di nature morte dove i soggetti fotografati sono “cose” create da me manipolando diversi materiali. come il polistirolo ed il nylon. Prima ancora della fotografia, c’è quindi una mia diretta partecipazione nell’arte plastica e nella pittura.  I primi oggetti  li ho creati ispirandomi al paesaggio ferito dal terremoto 2012.

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